La cognizione del dolore (Editoriale, Il Manifesto, 18 marzo 2011, estratto)
[Fonte: Il Manifesto, articolo completo: <cite cite="http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/03/articolo/4323/">IL MANIFESTO</cite>. Estratto.]
di Giorgio Amitrano
La cognizione del dolore
?Non ci sono parole?. ? una frase che in questi giorni ricorre spesso nei nostri discorsi a proposito di ci? che ? avvenuto in Giappone. Eppure questa dichiarazione di silenzio ? subito smentita da un inarrestabile bisogno di commentare, raccontare e giudicare. Unanime l'ammirazione per il comportamento dei giapponesi. Le parole ?dignit?? e ?compostezza? sono ripetute di continuo. Non mi preoccupa che diventino un luogo comune. Le trovo giuste, adeguate, e non c'? bisogno di affannarsi a cercare sinonimi. Per? spero che tutti coloro i quali seguono ipnotizzati le immagini della tragedia percepiscano, dietro la dignit? e la compostezza, il dolore. I giapponesi lo soffrono come ogni altra popolazione del mondo, n? le loro emozioni sono meno profonde e sconvolgenti di quelle degli altri.
Eventi del genere attenuano le differenze culturali che, anche in tempi di omologazione globale, continuano ad alimentare l'attrazione e la curiosit? (a volte venate di razzismo) che ogni alterit? ispira. Le tragedie ci ricordano l'appartenenza di tutti a un'unica razza umana e, anche se per un tempo breve, ci affratellano. Il dolore umano ? lo stesso a Fukushima e ad Haiti o all'Aquila, nel Friuli o in Irpinia, anche se espresso in una lingua incomprensibile ai pi?, anche se meno urlato, e comunicato con una gestualit? forestiera, fatta di inchini e povera di abbracci. Un dolore che parlando un linguaggio diverso dice lo stesso strazio per la perdita delle persone e delle cose materiali. La disperazione per la perdita delle case, ma anche di oggetti superflui e incongrue suppellettili, ? un sentire le cui radici affondano in un'era precedente a quel consumismo su cui il Giappone ha costruito la propria fortuna nel dopoguerra, e che forse risale a vite precedenti dell'umanit?.
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[Fonte: Il Manifesto, articolo completo: <cite cite="http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/03/articolo/4323/">IL MANIFESTO</cite>. Estratto.]
di Giorgio Amitrano
La cognizione del dolore
?Non ci sono parole?. ? una frase che in questi giorni ricorre spesso nei nostri discorsi a proposito di ci? che ? avvenuto in Giappone. Eppure questa dichiarazione di silenzio ? subito smentita da un inarrestabile bisogno di commentare, raccontare e giudicare. Unanime l'ammirazione per il comportamento dei giapponesi. Le parole ?dignit?? e ?compostezza? sono ripetute di continuo. Non mi preoccupa che diventino un luogo comune. Le trovo giuste, adeguate, e non c'? bisogno di affannarsi a cercare sinonimi. Per? spero che tutti coloro i quali seguono ipnotizzati le immagini della tragedia percepiscano, dietro la dignit? e la compostezza, il dolore. I giapponesi lo soffrono come ogni altra popolazione del mondo, n? le loro emozioni sono meno profonde e sconvolgenti di quelle degli altri.
Eventi del genere attenuano le differenze culturali che, anche in tempi di omologazione globale, continuano ad alimentare l'attrazione e la curiosit? (a volte venate di razzismo) che ogni alterit? ispira. Le tragedie ci ricordano l'appartenenza di tutti a un'unica razza umana e, anche se per un tempo breve, ci affratellano. Il dolore umano ? lo stesso a Fukushima e ad Haiti o all'Aquila, nel Friuli o in Irpinia, anche se espresso in una lingua incomprensibile ai pi?, anche se meno urlato, e comunicato con una gestualit? forestiera, fatta di inchini e povera di abbracci. Un dolore che parlando un linguaggio diverso dice lo stesso strazio per la perdita delle persone e delle cose materiali. La disperazione per la perdita delle case, ma anche di oggetti superflui e incongrue suppellettili, ? un sentire le cui radici affondano in un'era precedente a quel consumismo su cui il Giappone ha costruito la propria fortuna nel dopoguerra, e che forse risale a vite precedenti dell'umanit?.
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